Gli auguri del Presidente Nazionale a nome di tutta l’Associazione.
Lunedì 25 dicembre 2006: S. Natale – Christmas Day. Così leggo nella mia agenda e nei vari calendari disseminati in casa e nei luoghi pubblici più disparati. Natale: scuole, fabbriche, uffici chiusi. Chiusi per tutti. Il calendario e la città riflettono, da sempre, le coordinate fondamentali, di ordine temporale e spaziale, che vertebrano un ethos condiviso. Il calendario e la città (senza i quali la convivenza sarebbe letteralmente inconcepibile) non esistono in natura, sono dei “prodotti culturali”, risultato di una sedimentazione storica di esperienze, credenze, valori condivisi. Tutto, credo, comincia da qui: la distinzione tra pubblico e privato ha un senso solo dentro una cornice spazio-temporale comune. Se manca questa cornice, i due ambiti non possono offrire più un contesto partecipativo per la convivenza e il dialogo.
Se volessimo dare il nome di ethos a questo “paesaggio culturale”, dovremmo riconoscere che esso è il risultato di una sintesi sempre aperta tra pratiche di vita e istituzioni. Le prime sono permeate e unificate da scale valoriali, reti comunicative, abiti virtuosi, che trovano in alcune forme simboliche il loro coagulo, legittimando una domanda di istituzionalizzazione. Queste forme simboliche sono almeno di due tipi: in un caso riassumono un centro di senso che esige un’adesione personale, tale da investire direttamente la coscienza del soggetto e, proprio per questo, possono essere innalzate a livello istituzionale solo se sorrette da un consenso personale (per esempio: la recita della preghiera in classe o la pratica di forme di vera e propria catechesi religiosa); in un altro caso si propongono come componente qualificante del nostro habitat culturale, ricordandone la matrice originaria, ma lasciando un margine di autonomia fra privato e pubblico. È il caso del calendario, che ritma il tempo del lavoro e quello della festa in forme istituzionalizzate, sulla base di una simbologia religiosa inequivocabile e insieme aperta ad essere spesa diversamente nella vita privata.
Il presepe in un luogo pubblico appartiene (come il crocifisso) a questo secondo genere di simboli: simboli pubblici, perché veicolano inequivocabilmente il senso di una storia condivisa dalla maggioranza dei cittadini, ma nello stesso tempo tali da non impegnare con un atto personale la coscienza privata. Nello specifico, essi alludono ad una famiglia di valori rispetto ai quali nessuno può sentirsi discriminato nella loro ricaduta civile. Il presepe, infatti, dice in forma simbolica che tutti gli uomini sono uguali dinanzi a Dio, che nessuno deve sentirsi escluso, respinto, allontanato; che anche gli ultimi sono interpellati e chiamati alla speranza: esso parla al cuore del credente, ma può parlare anche al cuore di tutti.
La scuola, del resto, non può illudersi di inseguire la neutralità sul piano educativo: se neutralizza la simbologia religiosa, fa una chiara scelta atea, proprio come chi privatizza la monogamia fa una chiara scelta pubblica in favore della poligamia. D’altro canto, se la scuola esclude la celebrazione del razzismo o dell’odio etnico, non lo fa certo in nome della neutralità. La desertificazione dei simboli religiosi, in questo caso, sarebbe una vera e propria scelta ideologica, che la scuola può fare assumendosene la responsabilità, ma attraverso procedure pubbliche e dichiarate, senza rifugiarsi dietro l’alibi della imparzialità e senza dire che così si salva lo spazio pubblico della convivenza. Il tentativo patetico di neutralizzare questi simboli (sostituendo la storia di Natale con la favola di Cappuccetto Rosso, mettendo al bando i canti natalizi, o sostituendo “Gesù” con “virtù”, per salvare la rima) sono una forma forse ancora più grave di mistificazione, che consiste appunto nel tradire il senso del calendario e nel censurare le pratiche di vita che hanno plasmato il nostro ethos. Ma questo pone un problema ancora più grave: il deficit di coscienza pedagogica che pesa sulla istituzione scolastica, dove, nascondendosi allegramente dietro alcuni stereotipi superficiali, sono in molti a non sapere più che cosa significhi veramente educare. L’esatto contrario di quest’atteggiamento lo ritroviamo in coloro che vogliono strumentalizzarlo, facendo ricadere sulle spalle degli immigrati una colpa che forse è solo nostra. In entrambi i casi, si dimentica il vero senso del Natale, che non può essere una festa neutra, né – tantomeno – il presto per una crociata identitaria.
Buon Natale. Che la memoria della venuta del Signore sia segno e fonte di bene per tutti.
di Luigi Alici